Cass. Civ., Sez. Un., 14 febbraio 2022, n°4696
Con la pronuncia del 14 febbraio 2022, n°4696, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è espressa sulla possibilità per l’impresa di essere dichiarata fallita nell’ipotesi di inadempimento del concordato preventivo omologato senza la necessità di una preventiva dichiarazione di risoluzione del medesimo pronunciando il seguente principio di diritto: “nella disciplina della Legge Fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal D. Lgs. n. 5 del 2006 e dal D. Lgs. n. 169 del 2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato L. Fall., ex art. 186”.
Nel caso portato all’attenzione della Suprema Corte, la Corte d’Appello aveva ritenuto di procedere alla revoca della sentenza di fallimento della società debitrice, risultata inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte nell’ambito di un concordato preventivo omologato ed in corso di esecuzione, dal momento che il fallimento era stato dichiarato in assenza di previa risoluzione del concordato con conseguente possibile elusione degli effetti negoziali di quest’ultimo.
La problematica in esame non è nuova alla Suprema Corte che già si era espressa con due ordinanze della sesta sezione (Cass. nn° 17703/17 e 29632/17) nelle quali si affermava che, venuto a cadere – con la riforma della L. Fall., art. 186, da parte del D.Lgs. n. 169 del 2007 – ogni automatismo tra risoluzione del concordato e dichiarazione di fallimento, quest’ultima potrebbe intervenire anche a prescindere dalla previa adozione della prima, quantomeno nei casi in cui il creditore istante faccia valere il credito non nella misura originaria, ma in quella falcidiata con la proposta concordataria omologata ineseguita, ma anche su istanza del pubblico ministero, dello stesso debitore e, eventualmente, anche di creditori nuovi.
Tale indirizzo, per quanto costante, non trovava però piena condivisione in parte autorevole della dottrina, secondo la quale la possibilità di fallimento “omisso medio” troverebbe invece ostacolo nella specialità della disciplina concordataria in quanto l’effetto esdebitatorio generale e vincolante per tutti i creditori anteriori, eliminando l’insolvenza pre-concordataria e determinando il ritorno in bonis del debitore, implicherebbe l’impossibilità di dar luogo ad un fallimento successivo se non dopo che quell’effetto sia stato eliminato attraverso lo strumento della risoluzione.
Ciononostante, la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha ribadito che non ci sono valide e convincenti ragioni per disattendere il citato indirizzo interpretativo in materia (Cass. nn° 17703/17 e 29632/17, ma anche Cass. nn° 26002/18 e 12085/20).
Difatti, anche il richiamo alla connotazione privatistica e negoziale dell’istituto del concordato preventivo non sarebbe sufficiente, a parere della Suprema Corte, a giustificare le tesi dottrinali sopra richiamate. Osservano sul punto gli Ermellini che se è vero che le riforme degli anni duemila hanno accentuato il carattere disponibile dell’istituto, altrettanto indubbio è che la prevalenza dell’elemento negoziale non può non risultare cedevole ogniqualvolta risulti che il concordato omologato non è attuabile perché il debitore non lo può adempiere, ed anzi si trova in una situazione del tutto assimilabile a quella di insolvenza.
Attraverso il richiamo alle sentenze gemelle nn° 9935 e 9936 del 2015 delle Sezioni Unite, La Suprema Corte si è poi occupata delle problematiche riguardanti la rimozione dell’insolvenza per effetto dell’omologa e la necessaria consecutività delle procedure concordataria e fallimentare.
Nelle citate sentenze, le Sezioni Unite avevano affermato che la pendenza di una domanda di concordato preventivo “impedisce temporaneamente la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dalla L. Fall., artt. 162, 173, 179 e 180 (…)” e che, in pendenza (i.e fasi di ammissione, di approvazione o di omologazione) di una procedura concordataria, “il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dalla L. Fall., artt. 162, 173, 179 e 180 e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato (…)“.
Preme sottolineare che, in questo caso, le Sezioni Unite avevano affrontato le predette problematiche nel contesto della pendenza della procedura concordataria (quindi fino all’avvenuta omologazione) ed avevano risolto il problema riconoscendo che:
- durante la pendenza di una procedura di concordato, il fallimento è precluso, salvo che nei casi tassativamente previsti dalla L. Fall., artt. 162, 173, 179 e 180;
- la dichiarazione di fallimento presuppone l’esito negativo della procedura di concordato e non consente la presentazione di ulteriori domande di concordato preventivo, mentre “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato“
Al contrario, nel caso in esame, il rapporto tra risoluzione e fallimento muoverebbe dal diverso contesto della post-omologazione, tenuto ben presente che, con il decreto di omologazione, la procedura di concordato preventivo – semplicemente – “si chiude” (Cfr. art. 181 L. Fall.).
In siffatta ipotesi, la Suprema Corte, osserva dunque che l’avvenuta omologazione, la chiusura della procedura concordataria e l’accesso del debitore alla fase puramente esecutiva dell’accordo (anche se sotto sorveglianza ex art.185 L. Fall.) comportano l’applicazione non già delle regole di coordinamento delle disposizioni fallimentari, ma dei principi generali di responsabilità, che include l’obbligo di valutare, altresì, se dall’inesecuzione dell’accordo già omologato si debbano trarre elementi di insolvenza e quindi si debba procedere alla dichiarazione di fallimento.
Pertanto, continua la Cassazione, non è dato comprendere il motivo per cui se i creditori anteriori riacquistano piena legittimazione ad agire contro il debitore per ottenere l’esecuzione del patto concordatario (ciò in quanto il divieto di azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore previsto dall’art. 168 L. Fall. decade dopo la definitività del decreto di omologa), non lo possano fare con tutti i mezzi consentiti dalla legge. In altri termini “perché alla tutela esecutiva individuale – non necessariamente condizionata all’istanza di risoluzione – non possa in questo caso associarsi, in presenza dei relativi presupposti ed anche al fine di tutelare la par condicio nella crucialità di questa fase, quella concorsuale”.
Proseguendo, gli Ermellini sottolineano quindi che, anche laddove l’iniziativa fallimentare possa talvolta apparire cosa inutile e diseconomica, occorre in ogni caso valutare l’interesse dei creditori a bloccare l’assunzione di nuove obbligazioni da parte del debitore destinate alla prededuzione, L. Fall., ex art. 111, nel fallimento successivo (ex multis Cass. n°2656/21).
In sostanza, l’impossibilità di esecuzione del concordato può qualificarsi come “una “seconda” insolvenza, rimanendo l’insolvenza quella stessa che ha dato inizio alla procedura concordataria e che, all’esito di questa, si manifesta in forma addirittura aggravata dall’incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni pur nelle più favorevoli modalità ed entità concordate. Ciò a maggior ragione in considerazione del fatto che l’omologazione non comporta di per sé novazione dell’obbligazione anteriore, quanto soltanto il diverso e più circoscritto effetto della parziale inesigibilità del credito (Cass. n. 12085/20 cit.; v. anche Cass. n. 13477/11)”.
Da ultimo, le Sezioni Unite hanno preso posizione in merito alla pretesa di rinvenire nel Codice della Crisi e dell’Insolvenza (“CCII”) – e, nello specifico, nell’art. 119, comma 7 secondo cui il “Tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo” – norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare oggi ancora vigente.
Come noto, ad oggi il CCII non è ancora entrato in vigore e, di conseguenza, non è applicabile. Ciò premesso, la Suprema Corte, richiamando la sentenza n°12476/20, ha ribadito il principio secondo cui il ricorso alle norme del CCII come fonte interpretativa può sì ammettersi, ma “se (e solo se) si possa configurare – nello specifico segmento – un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”, circostanza non sussistente nell’ipotesi in esame.
Sulla base delle argomentazioni sopra richiamate, la Suprema Corte giunge quindi all’enunciazione del principio di diritto sopra richiamato secondo cui, in linea di principio, la possibilità di dichiarare il fallimento anche senza risoluzione o annullamento non subisce restrizioni in ragione della eterogeneità e sostanziale atipizzazione delle offerte concordatarie oggi consentite dall’ordinamento.
Neppure il ricorso alla via interpretativa fondata su quanto previsto nel CCII permetterebbe dunque di introdurre nell’ordinamento, una condizione di fallibilità-procedibilità che, per le ragioni indicate, non è ad oggi rinvenibile.