Cass. Civ., Sez. I, ordinanza del 3.3.2022, n°7087
Con il provvedimento in commento il Supremo Collegio – ribadendo i precedenti ed ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali di legittimità in subiecta materia, ha affermato il seguente principio di diritto: “lo stato di insolvenza delle società che non siano in liquidazione va desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall’impossibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d’impotenza strutturale (e non soltanto transitoria) a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell’attività”.
Ciò detto, nel caso di specie sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, si lamentava una violazione dell’art. 5 L. Fall., sostenendosi che la Corte territoriale non avrebbe potuto equiparare il mancato pagamento di un credito contestato all’inadempimento e che, pertanto, avrebbe errato nel ritenere detta circostanza idonea ad integrare il presupposto dell’insolvenza contemplato dal disposto di cui all’art. 5 L. Fall..
Più precisamente, col ricorso presentato al Supremo Collego si rappresentava che “all’infuori del mancato pagamento del credito contestato non v’erano altri elementi sintomatici della decozione, non risultando protesti né procedure esecutive in corso, mentre la società̀ pagava regolarmente le rate del mutuo ed era in regola con il versamento dei contributi”. Ed ancora, si evidenziava poi che “l’attivo patrimoniale era consistente (oltre un milione di euro) mentre il passivo era costituito per la maggior parte da crediti per finanziamenti del socio, postergati; infine l’esposizione verso le banche ammontava a soli Euro 221.000,00”.
Ebbene, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul punto rigettando le doglianze sollevate dalla ricorrente ed affermando il principio di diritto ut supra riportato, così conferendo continuità ai consolidati orientamenti giurisprudenziali precedentemente adottati.
Invero, già in precedenza ed a più riprese, la medesima Sezione del Supremo Collegio aveva avuto modo di pronunciarsi, sostenendo che “lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività” (Cass. Civ. 29913/2018).
Alla luce di quanto sopra, emerge con evidenza che la valutazione in ordine allo stato di insolvenza, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento di una società non in liquidazione, impone l’adozione di un punto di vista prognostico, risultando cioè necessaria per l’interprete un’attenta disamina, non solo del profilo statico dato dal rapporto tra attivo e passivo patrimoniale, ma anche e soprattutto dell’aspetto dinamico, rappresentato dall’accertata impotenza economico-finanziaria dell’impresa ad operare sul mercato, fronteggiando le obbligazioni secondo un criterio di “normalità”.
L’adozione del siffatto atteggiamento interpretativo, a giudizio della Suprema Corte, riveste una valenza determinante per la corretta interpretazione ed applicazione del disposto di cui all’art. 5 L.F..